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Una storia dell'alpinismo
Liberodiscrivere edizioni | Giovanni Pastine | Genova | 2014 | pagine 194 | 15 x 21

Una storia dell'alpinismo

storia

L'alpinismo, attività elitaria per eccellenza, è parte inscindibile della storia dell'umanità. Esso non è praticato solo a livello di elevata difficoltà tecniche e ambientali come non è praticato solo alle massime altitudini. È un'attività che si svolge, anche e più frequentemente, su altitudini e difficoltà modeste, là dove si evidenzia la maggiore frequenza.


UN CLAMOROSO ESORDIO

La data di inizio è stata sempre ufficialmente fissata al 8 agosto 1786, quando il medico Michel Paccard ed il contadino Jacques Balmat raggiunsero in modo da definire avventuroso e faticoso la vetta del Monte Bianco in ore ormai preserali. L’attrezzatura e l’equipaggia–mento usati erano quanto mai primordiali ivi compresi mezzi di protezione ottici forse addirittura assenti perché furono anche colpiti dall’oftalmia delle nevi; tuttavia essi superarono difficoltà glaciali oggi più che mai presenti anche a causa dell’itinerario prescelto, poi abbandonato. L’ideologo dell’ascensione era stato uno scienziato svizzero: Horace Benedict De Saussure che aveva a lungo studiato le sue possibilità. Finì per essere preceduto dalla concretezza di Paccard e salirà al Bianco in seguito non mancando di qualche commento non proprio benevolo sul suo predecessore medico: già allora… Quasi certamente i primi salitori furono favoriti dall’abbondante innevamento del tempo. Infatti i ghiacciai, già in notevole ritiro nel XVI secolo tanto da favorire trasmigrazioni di intere popolazioni attraverso valichi disagevoli ancor oggi, erano nuovamente in espansione. Ad esempio, le popolazioni di lingua tedesca, provenienti dal Vallese e stabilitesi in alcune valli sul versante meridionale delle Alpi, avevano dovuto trovarvi dimora stabile. Ancor oggi nella valle del Lys, nell’alta Val Sesia, nella valle Anzasca, si trovano non pochi cognomi di origine tedesca. Chi, oggi, spiega l’attuale indubbia deglaciazione citando cause recenti dovrebbe anche riflettere su tali autentici cicli naturali. La deglaciazione manifestatasi ai tempi del Rinascimento non poteva certo essere stata provocata dalla circolazione automobilistica o da quella aerea! E che dire di Giulio Cesare che, come riferì nei suoi celebri Commentari, andava avanti e indietro per mezza Europa, Inghilterra compresa, quasi disponesse già di autostrade o ferrovie veloci quando invece si serviva del carro e del cavallo come se ne sarebbe poi servito Napoleone Bonaparte quasi venti secoli dopo. Solo in un caso Cesare cita “Mons altissimus impendebat”, monte che nessun commentatore ha mai stabilito territorialmente con precisione. Evidentemente il superamento della catena alpina non costituiva per lui un fatto particolarmente rilevante. E che dire di Annibale, passato quasi due secoli prima con un intero esercito provvisto di elefanti che costituivano, strategicamente e tatticamente, i mezzi corazzati dell’epoca! Invece il rovescio accadde evidentemente quattro o cinque secoli dopo quando le popolazioni di prevalente origine germanica, trasmigrate a sud delle Alpi in quelle che furono definite le invasioni barbariche, non fecero ritorno nella terra d’origine. Non si può escludere anche una ragione climatica. Venendo ai tempi della prima ascensione del Monte Bianco, quando Chamonix e tutta la Savoia facevano parte del Regno di Sardegna, appare molto indicativa un’opera di storia militare scritta dal colonnello torinese Dario Gariglio dal titolo “Battaglie alpine del Piemonte sabaudo”, durate la bellezza di tre secoli contro un unico avversario che non riuscì mai ad ottenere una vittoria definitiva per aver sempre tentato di invadere le valli e la pianura piemontese attraverso valichi alpini anche tutt’oggi impervi. Vi riuscì solo, alla fine di quei tre secoli presi in esame dal militare torinese, un giovane generale corso, tal Napoleone Bonaparte che il direttorio della neo repubblica francese aveva allontanato da Parigi per non pochi e vari scomodi motivi. Il Bonaparte comprese come le azioni militari attraverso le Alpi fossero fallite anche in tempi recenti e, approfittando della inconsistenza politico militare della Repubblica di Genova, città la cui supremazia era già allora malvista e maltollerata nel ponente ligure, vi fece sfilare il suo esercito fino a penetrare in Piemonte da sud est attraverso un valico di modestissima difficoltà e quota quale il colle di Cadibona. E fino alla sua caduta, nel 1814, il Piemonte, con altri territori italiani, avrebbe fatto parte della Francia. L’impervietà dei valichi alpini, tale anche dal punto di vista climatico, appariva evidente. 

È curioso il notare come appaiano riferimenti di deciso carattere alpinistico in alcune celebri pagine della letteratura classica. Dante Alighieri, nel quarto canto del Purgatorio cita itinerari, sia pure a quote non elevate, di significato alpinistico ancor oggi: 
“ …vassi in San Leo e discendesi in Noli, montasi su Bismantova in cacume… ”

In altri passi, citando metodi di progressione montana, riferisce di indubbi movimenti di progressione alpinistica. Tuttavia se si esclude l’ascensione al Mont Ventoux di Francesco Petrarca e quella di un soldato francese al Mont Aiguille, verso la fine del XV secolo e per ordine del re transalpino Carlo VIII, montagne entrambe site nella Francia sud orientale, non si rileva nulla fino alla precitata ascensione del Monte Bianco. 

Le guerre napoleoniche imposero una indubbia stasi nella esplorazione alpina anche se, ad esempio, nel 1812 si registrava la prima ascensione della Jungfrau nell’Oberland Bernese. Poco dopo la metà del secolo XIX quasi tutte le principali cime alpine erano state però raggiunte. A partire da Chamonix, i montanari, migliori conoscitori del terreno soprattutto in quanto cacciatori di camosci ed avvezzi quindi ai terreni più impervi ghiacciai compresi, avevano costituito delle società delle guide con lo scopo di accompagnare sulle alte montagne i turisti desiderosi di salirle. È curiosa, anche perché riferita in una interessante opera letteraria, l’ascensione femminile al Monte Bianco da parte della nobildonna Henriette d’Angeville. Non si trattava della prima femminile. Una cameriera d’albergo di Chamonix, tale Marie Paradis, vi era stata già condotta, sia pure faticosamente, qualche tempo prima; ma la nobildonna prese la cosa molto… sportivamente definendo la Paradis, in sua presenza, durante un pranzo di commiato successivo alla sua ascensione, sorella del Monte Bianco. 

Quella che possiamo definire la seconda fase della storia dell’alpinismo iniziò dopo la metà del XIX Secolo con una prevalente presenza britannica. Gli inglesi erano in netto vantaggio su altri popoli per spirito di avventura. Avevano percorso e conquistato mezzo mondo. Possedevano, anche in conseguenza di tali conquiste, una maggiore stabilità economica. Da non trascurare anche il loro predominio pionieristico in molte attività sportive tuttora in atto ed in espansione. Fisici allenati ed avvezzi a sopportare ogni tipo di disagi, provvisti delle necessarie possibilità economiche, non potevano non dedicarsi anche ad un genere di esplorazione e di successo sportivo quale l’ascensione di montagne anche dall’accesso difficile. La loro terra offriva ben scarse possibilità di una preparazione alpinistica. Solo in Scozia alcune montagne superavano i mille metri di altitudine. Ancora minori possibilità offriva il Galles; quindi nulla: solo pianure e coste più o meno scoscese. A tutto ciò suppliva però, come già rilevato, lo spirito di avventura e la preparazione sportiva. A Londra, nel 1857, veniva fondata la prima associazione alpinistica mondiale quale l’Alpine Club. Potevano farne parte solo individui in grado di dimostrare una pratica di montagna continuativa e di rilievo. Tale normativa divenuta statutaria è presente inalterata ancor oggi a dimostrazione del culto tipicamente britannico delle tradizioni. 

Alcuni, fra tali alpinisti sono divenuti leggendari. Primo fra tutti Edward Whymper che, accompagnandosi prevalentemente con la guida Michel Croz di Chamonix, salì in prima ascensione montagne come le Gran Jorasses e l’Aiguille Verte nel massiccio del Monte Bianco, la Barre des Ecrins in Delfinato. Ora gli occhi degli alpinisti (e delle loro guide montanare) erano puntati sul Cervino ritenuto al momento una fra le montagne più difficili e prestigiose. Whymper, desiderando anche salire la montagna lungo un suo versante dall’aspetto più difficile quale quello che domina la conca del Breuil in Valtournenche, finì per accordarsi con la nota guida locale Jean Antoine Carrel. Sembrava affare fatto dalle buone probabilità di successo constatata la qualità specifica dei partecipanti quando l’acceso spirito nazionalistico degli ambienti dirigenziali piemontesi, ora divenuti italiani, si intromise nel progetto convocando Carrel a Torino, allora prima capitale d’Italia. Qui lo ricevette il ministro Quintino Sella, biellese, appassionato alpinista, ma più noto per la severità e la impopolarità con cui gestiva l’economia del neonato stato unitario in gravi difficoltà a causa delle notevoli spese militari sostenute nelle guerre necessarie per l’unificazione italiana; spese tuttora presenti per gravi necessità economiche legate allo sviluppo di un territorio fra l’altro ancora, almeno in parte, tutt’altro che pacificato. Senza contare i cospicui e determinanti aiuti militari francesi ed i favori prevalentemente politici britannici, determinanti anch’essi e, troppo ovviamente, … monetizzabili. 

Sella ingiunse praticamente a Carrel di disdire l’impegno preso con Whymper e di mettere la sua esperienza a disposizione di una spedizione italiana per evidenti ragioni di prestigio. Carrel, che aveva già prestato servizio militare nei bersaglieri, corpo fra i più noti e prestigiosi dell’esercito sabaudo prima e italiano poi, si sentì in dovere di obbedire disdicendo automaticamente l’accordo preso con Whymper che, per inciso, non la prese affatto bene e con ragione! 

Sella aveva di recente, nel 1863, fondato il Club Alpino Italiano. Nello stesso anno, insieme ad altri tre nobiluomini piemontesi suoi pari, e accompagnato da guide montanare locali, era salito al Monviso, vetta alpina ben visibile dalla pianura piemontese e dalla stessa Torino. 
Rientrati a valle, di comune accordo, avevano deciso di “fare qualcosa di simile a quello che è stato fatto a Londra” (sei anni prima). Parole loro! Era sorto così un ente prestigioso chiamato Club Alpino Italiano che però, nel tempo, sarebbe divenuto sempre meno simile “a quel che è stato fatto a Londra”. Ora un successo nazionale come la prima ascensione del Cervino si imponeva. Gli inglesi avevano scalato anche il Monviso con Mathews, accompagnato dai Croz di Chamonix. Aveva fatto seguito l’ascensione di Tuckett accompagnato da tale Bartolomeo Peyret di Bobbio Pellice. Dunque un italiano aveva già calcato la vetta del Monviso! Era però un valligiano valdese, appartenente ad una pratica religiosa cristiana non cattolica che aveva avuto sempre vita difficile sia da parte dei francesi che dei Savoia e che solo grazie allo statuto albertino del 1848 aveva visto riconosciuta una parità con gli altri sudditi del regno sabaudo. Per non parlare del fatto che allora e anche per molto tempo in seguito, nel Regno d’Italia, avrebbe contato solo una classe dirigente, per giunta dall’operato assai opinabile. Eppure proprio le classi più umili, montanari non solo alpini in testa, con la loro inesauribile laboriosità e anche con il loro coraggio avevano e avrebbero tolto più di una castagna dal fuoco alla dirigenza. 

Carrel, in cuor suo, avrebbe voluto rispettare l’impegno preso con Whymper; ma i suoi compaesani, fidando in futuri vantaggi provenienti dalla “pianura” lo convinsero ad accettare la proposta di Sella: preveggenti! 

Whymper intanto aveva valicato il colle del Teodulo ed era sceso a Zermatt dove aveva nuovamente incontrato il fido e capace Croz ed anche altri tre connazionali di minore esperienza. Uno di loro, l’Hadow era da considerarsi un principiante. Furono ingaggiati così anche due professionisti locali, i Taugwalder padre e figlio, rispettivamente guida e portatore. La comitiva si incamminò verso la base della cresta dell’Hoernli che attaccò nel giorno successivo. Il morale era alto. La difficoltà del percorso opponeva ostacoli, salvo qualche breve tratto, solo nella parte superiore, sulla “testa”, dove la classe di Croz fu determinante. La vetta fu così raggiunta in buon orario con l’entusiasmo provocato dalla constatazione di aver anche preceduto i… concorrenti. 

Cosa era successo dall’altra parte? Sella aveva inviato a Valtournenche il professor Giordano munito di una sostanziosa sovvenzione finanziaria fatto da considerare davvero straordinario per uno stato costretto a tassare il pane quotidiano per far fronte a conseguenze di tipo militare non ancora esaurite in quanto il processo unitario era ben lungi da una soluzione pacifica anche all’interno del neonata nazione. Giordano aveva assoldato gran numero di valligiani in funzione di guide e soprattutto di portatori. In testa a tutti era ovviamente Carrel. Qualcosa cominciò ad andare storto quando Giordano stesso mise a nudo la propria impreparazione specifica. Dovette rassegnarsi a dirigere dal basso, fatto che incontreremo ancora in tal genere di storia. Carrel fu così ritardato rispetto ai concorrenti del versante opposto e, al loro arrivo in vetta, nonostante la sua perizia, era ancora abbastanza distante. Torniamo invece ai vincitori. La discesa si rivelò subito più ostica come spesso succede. Croz apriva la strada con la consueta perizia ma una improvvisa caduta di Hadow lo travolse facendolo precipitare a sua volta. Le tecniche di assicurazione e autoassicurazione erano ancora primitive per non dire assenti. Anche le corde non apparivano affidabili più di tanto. Altri due alpinisti furono trascinati nella caduta e la corda si spezzò fra il terzo e il quarto componente della numerosa cordata. Whymper e i Taugwalder, unici superstiti, raggiunsero Zermatt in angoscioso dolore. Strascichi anche legali (già allora!) non mancarono. Intanto Carrel non aveva perso tempo. Due giorni dopo, forte di compagni solidi ed esperti, aveva raggiunto la vetta per un itinerario più difficile di quello dei primi salitori. Era regolarmente ridisceso senza sapere ancora nulla della tragedia appena consumata. Ovviamente non esistevano né radio, né televisione, tantomeno telefoni cellulari… 

Whymper e Carrel finirono per riappacificarsi. Scalarono insieme nientemeno che il lontano Chimborazo in Ecuador. Whymper visse fino a tarda età e vide il secolo successivo. Carrel aprì ancora una prestigiosa via sul versante sud del Monte Bianco: quasi una diretta alla vetta. Continuò ad accompagnare alpinisti sulla sua montagna fin quando non fu costretto a ripiegare in una furiosa tormenta. Riuscì a condurre la sua cordata fino ai prati e ad un comodo sentiero. Si sedette e spirò. Il suo compito era terminato; i clienti erano in salvo. “Il est mort; n’est pas tombée”. Ecco il vero epitaffio di un grande uomo di montagna. Chi cade, sia pure anche per una semplice distrazione, ha sempre commesso un errore. 

Prima di passare a quello che definirei il capitolo successivo resta da dire di una grossa impresa opera ancora di due guide quali Jacob e Melchior Anderegg di Grindelwald e di alpinisti britannici quali Mathews, Moore ed i fratelli Walker: la prima ascensione dello sperone della Brenva al Monte Bianco praticamente contemporanea della prima ascensione del Cervino (1865). Brillarono soprattutto le piccozze degli Anderegg, vere macchine scava gradini; ma quello che ancor oggi stupisce è l’orario: poco oltre 36 ore per partire da Courmayeur, raggiungere la vetta del Bianco per lo sperone della Brenva e rientrare a Courmayeur. Le condizioni della neve dovevano essere ottimali tuttavia… E che dire della prima, già citata salita delle Gran Jorasses da parte di Croz e Whymper? Partenza da Cormayeur a mezzanotte e rientro alle 22 dello stesso giorno. Quanti alpinisti di tempi recenti, chi scrive compreso, avrebbero voluto imitare quei lontani predecessori che dovevano anche cercarsi la strada! 

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