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Dove va il vento quando non soffia -  Una spedizione da record nel Karakorum inquieto
Priuli & Verlucca | I Licheni | Dušan Jelinčič | Scarmagno | 5/2017 | pagine 335 | 12,5 x 20

Dove va il vento quando non soffia - Una spedizione da record nel Karakorum inquieto

I Licheni n. 99

Ritorna Dusan Jelincic col racconto dell’esperienza sul suo terzo ottomila, il Gasherbrun II (8035 m.) salito nel 2003, dopo il Broad Peak e l’Everest.
Triestino di nascita, ma sloveno di origine, soffre questa condizione di straniero in patria, costretto a scontrarsi con pregiudizi e incomprensioni. Primo triestino comunque ad aver salito un ottomila, quando viene invitato ad aggregarsi ad una spedizione composta dai triestini Marco Tossutti, Sandra Canestri e Miro Chert e dai fortissimi tarvisiani Nives Meroi, Romano Benet e Luca Vuerich, aderisce con entuasiasmo.
Fa parte della spedizione anche Gianbattista Galbiati di Bergamo. Per la cronaca, nel corso della stessa spedizione, i tre tarvisiani compiranno la traversata Gasherbrun I - Gasherbrun II - Broad Peak.
Ma per il suo carattere schivo e introverso, Jelincic affronta questa avventura con circospezione, quasi con timore reverenziale verso colleghi più famosi di lui. Il libro riflette questo suo atteggiamento introspettivo, pieno di dubbi e sempre alla ricerca di risposte alle sue domande interiori, non solo alpinistiche ma anche filosofiche e politiche.
Idealmente diviso in tre parti (la fase di preparazione, l’assalto vittorioso e solitario alla vetta, il ritorno) il libro ci restituisce non solo un alpinista di valore, ma anche un uomo di grande spessore, acuto osservatore del mondo che lo circonda, in particolare quello dei nativi e degli sherpa, dell’organizzazione pletorica e talora contradditoria delle spedizioni viste dal di dentro, delle rivalità tra cordate di nazionalità differenti, ma anche dello spirito di cameratismo e di solidarietà che nonostante tutto questo mondo degli scalatori sa esprimere.
Jelincic è il rappresentante tipico del mondo degli scalatori slavi, quelli dell’“alpinismo povero”, in particolare dei fortissimi polacchi che negli anni ’80 e ’90, con mezzi risibili, hanno ampiamente dimostrato al mondo che i soldi non sono tutto per affrontare l’alpinismo di alta quota.

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