Nel primo volume “Andar per malghe” era la gastronomia, o comunque l’agriturismo, che ci spingeva ad andar per monti; in questo secondo volume invece è la storia del luogo, della malga stessa o di chi faticosamente ci lavora ad invitarci a metterci in cammino. Genti di montagna, casari e malgari, tra cui molte donne, mantengono curate, con enorme fatica, le cosiddette terre alte, gli alpeggi. Non bisogna dimenticare infatti che gran parte della superficie agraria utilizzata in Trentino, 110.000 ettari circa, è costituita da prati e pascoli a fronte di uno sfruttamento delle legnose agrarie di soltanto 22.000 ettari e di un coltivato a seminativo di poco più di 3.000 ettari.
La contemporaneità ha portato con sé la scomparsa di tutto quel mondo di credenze, leggende e riti di cui l’alpeggio e la malga erano portatori. Pensiamo soltanto alle credenze di un tempo legate all’alpeggio inteso come limes tra il mondo dell’aldilà e dell’aldiquà. L’estate spazio dei vivi, anche se le zone che lo sovrastano sono abitate da presenze soprannaturali, d’inverno appartiene agli spiriti ed era uno spazio tabù, oggi infranto dall’apertura invernale di alcune malghe – giusta e anzi auspicabile sotto l’aspetto economico e turistico – e dal via vai di scialpinisti, ciaspolatori, ecc. Se le malghe frequentate d’inverno non sono più gli spazi dove vivono i confinati, i “non morti”, che non possono chiudere gli occhi fintanto che non hanno cessato di espiare la propria pena e restano sulla terra in quanto non accettati neppure all’inferno – pensiamo soltanto a chi, in vita, spostava i termini –, rimangono pur sempre un bene economico da sfruttare con intelligenza, al di là delle stagioni e della funzionalità legata soltanto all’alpeggio. Salire con discrezione e rispetto alle malghe, nel profondo silenzio autunnale e invernale, vuol dire riappropriarsi di una dimensione umana e ricucire lo strappo tutto moderno con la natura.