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Diario di guerra dal Corno di Cavento del primo tenente dei Kaiserjager Felix Wilhelm Hecht von Eleda
Rendena | Tione di Trento | 5/2017 | pagine 122 | 16,5 x 23

Diario di guerra dal Corno di Cavento del primo tenente dei Kaiserjager Felix Wilhelm Hecht von Eleda

Note dell'ing. Dante Ongari

Cresta Croce, Caré Alto, Cima Presanella, Corno di Cavento, Punta Linke, Punta San Matteo. Sono solo alcune delle cime in cui dal maggio 1915 al novembre 1918 si combatté lungo il fronte dolomitico dell’Adamello la “guerra bianca” tra il Regno d’Italia e l’Impero Asburgico, così chiamata poiché gli Alpini e i Kaiserjager si affrontarono sui bianchi ghiacciai perenni delle Alpi del Trentino. Una guerra fatta di colpi di mano da una cima all’altra, che potevano essere perse e riconquistate un’infinità di volte, senza grandi movimenti di truppe o assalti all’arma bianca tra le trincee. Una guerra che ha dell’incredibile ancora dopo un secolo, per i patimenti e le sofferenze di chi la visse: tormente di neve, valanghe e slavine, crepacci e dirupi, temperature che potevano raggiungere i 20 e i 30 gradi sotto lo zero durante i periodi invernali. Italiani e Austriaci, nemici dal 24 maggio 1915, dovettero affrontare disagi e pericoli comuni. E le azioni che vi si svolsero resero celebri per sempre, nella memoria dei protagonisti, le imprese compiute sopra i 3000 metri di quota: dove non arrivarono le teleferiche e gli instancabili muli, ci pensarono gli Alpini e i Kaiserjager a portare sulle vette mitragliatrici, fucili e cannoni, scavando gallerie nel ghiaccio e nelle montagne e costruendo rifugi e baraccamenti in legno.

Tra coloro che combatterono la guerra dei 3000 metri vi fu anche un giovane Tenente austriaco, Felix Wilhelm Hecht von Eleda, viennese di ventitré anni, che prima di approdare sul fronte alpino italiano venne destinato al settore della Galizia, dove la sua Austria-Ungheria era impegnata contro l’esercito russo dello Zar Nicola II. Ma il giovane Tenente viene ancora oggi ricordato per i toccanti e commoventi diari che scrisse durante i cinque mesi di permanenza sul Cavento, occupato dagli Austriaci fin dal 30 aprile 1916, dove venne destinato a partire dal febbraio 1917. Pagine piene d’ammirazione per le montagne innevate, per i ghiacciai che brillavano alla luce del sole che tramontava e per gli Alpini, i nemici che sparavano contro di lui e i suoi uomini, e che definiva “Tigri”, per l’ardore e il valore che dimostravano in battaglia. E usa, invece, parole dure e sprezzanti contro i comandi e gli ufficiali che mandavano a morire così tanti giovani. Scrive in una delle sue pagine: “Rabbia bestiale mi prende col comandante dei prigionieri di guerra italiani, che egli lascia dormire senza coperte senza darsi cura di procurarle; questi poveri prigionieri che egli chiama mascalzoni hanno fatto il loro dovere in guerra certo meglio di taluni nostri porci imboscati nei comandi di truppa”. Parole dure che egli lascia alla nostra memoria perché non vadano mai più dimenticate. Ad altre pagine affida il suo futuro: “La morte strappa uno dopo l’altro gli amici migliori e si rafforza in me la determinazione di morire valorosamente come loro”.

Oggi, il diario del von Hecht si trova custodito presso il piccolo museo della Grande Guerra di Spiazzo, in Val Rendena, là dove ogni anno migliaia di turisti affollano le piste da sci e gli impianti di risalita, ignorando che, magari, sotto la neve e la terra di una pista, sono ancora custoditi resti di tanti giovani soldati, di giovani Alpini e Kaiserjeger, travolti da una valanga o strappati ai loro monti da un proiettile di fucile o di mitragliatrice. Forse, tra i ghiacciai perenni del Cavento, quando le nevi si ritireranno e si scioglieranno, anche il corpo di Felix Hecht, come sempre più spesso avviene, tornerà tra i vivi per essere sepolto in uno dei grandi cimiteri di guerra che sorgono tra il Trentino e il Veneto: il 15 giugno 1917, durante l’assalto italiano condotto da tre diverse direttrici alla vetta del Cavento, trovò la morte prima che la guarnigione austriaca si ritirasse dalla cima, lasciandola agli Italiani. Tra essi vi fu il Capitano Fabrizio Battanta che, trovato il diario di guerra, lo custodì gelosamente facendolo tradurre e consegnandolo alla memoria dei vivi.

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